(Le Concessioni sono Patrimonio Pubblico)
di Avv. Massimo Ricchi – Componente dell’Unità Tecnica Finanza di Progetto (UFP) -CIPE-
La relazione è stata presentata in occasione del Forum PA nell’ambito del Convegno:
Strumenti di finanza innovativa negli Enti Locali, svoltosi a Roma l’8 maggio 2006.
Il presente documento si propone di chiarire quale sia il ruolo e la funzione, giuridicamente delineata, del conferimento economico della PA nelle operazioni in finanza di progetto e quali siano gli accorgimenti utili per massimizzarne il valore; ciò anche perche' lo scambio tra pubblico e privato deve essere equo non solo in fase di sottoscrizione della concessione ma per tutta la sua durata.
Si deve premettere
[1] che la determinazione della tipologia, della quantità
[2] nonche' l’identificazione delle condizioni di erogazione del contributo pubblico, che poi vengono cristallizzate in un atto contrattuale, è solo una parte di un complesso processo di cui la PA è protagonista anche se culturalmente ancora inconsapevole e tecnicamente incapace di sfruttarne appieno le potenzialità
[3].
A livello europeo
[4] oramai si consolidano chiare tendenze nelle legislazioni nazionali e, soprattutto, nelle prassi operative per gestire la complessità di tale processo tese ad una scelta appropriata della tipologia contrattuale e del procedimento di aggiudicazione nelle operazioni di PPP, in particolare si osserva che:
la generazione del mercato delle concessioni o del partenariato pubblico-privato è una prerogativa forte della PA che deve stabilirne il perimetro e le regole di accesso dell’offerta
[5];
la programmazione degli interventi è un passaggio ineludibile tale per cui la PA , per ciascun settore (autostrade, ferrovie, ospedali, scuole), deve conoscere quali siano le reali disponibilità finanziarie e la loro eventuale sostenibilità nel tempo;
le ristrettezze di bilancio e quelle relative all’esigenza di non gravare sul debito pubblico
[6] non dovrebbero influenzare ne' le opzioni contrattuali e neppure quelle procedimentali. Si dovrebbe scegliere la combinazione di opzioni che massimizzi la convenienza della PA ad acquistare (
value for money) la qualità di un certo bene ed un certo
standard di servizio associata ad una distribuzione dei rischi mediante analisi quantitativa, che devono essere trasferiti al privato, trattenuti dalla PA o oggetto di negoziazione tra le parti;
la competenza per questo ruolo della PA rende necessaria la costituzione di un
team costituito da esperti motivati dell’amministrazione procedente
[7], da una Task Force sulla finanza di progetto
[8] e da professionalità esterne per coprire specifiche carenze (giuridiche-tecniche-economiche-finanziarie) per affrontare la negoziazione con la parte privata, tesa alla definizione di ciò che si vuole acquistare
[9] sia in termini di lavori che di servizi. La competenza della PA in generale e nella negoziazione in particolare, dove non si cimenta solitamente, è rivolta appunto a centrare l’interesse pubblico che in definitiva non è altro che ottenere una adeguata qualità di servizi per i cittadini, la costruzione dell’opera è solo strumentale a quel fine
[10].
la scelta del procedimento, specialmente per le opere medio-grandi (> 60 Milioni €), si orienta verso ciò che garantisce una certa flessibilità e contempla una fase di negoziazione. La flessibilità, svincolando il procedimento
ex ante da un preciso
nomen contrattuale, consente di scegliere il contratto che permette in prospettiva di concludere il migliore acquisto della PA in relazione alle condizioni di mercato effettivamente esistenti
[11]; la negoziazione cooperativa, invece, garantisce la migliore definizione dell’infrastruttura e dei servizi da acquistare consentendo l’emersione di valori latenti da ripartire, il giusto guadagno del
partner privato
[12] ed una distribuzione dei rischi sostenibile dalla parte più appropriata
[13] (in Italia 37-
bis e dialogo competitivo).
Data per assodata questa prospettiva di approccio a cui deve tendere la PA , dovrebbe essere oramai coscienza comune come il contributo pubblico sia una leva essenziale per far decollare i progetti d’investimento nel senso di renderli “fattibili”, specialmente quando siano opere tiepide e, allo stesso tempo, permetta di perseguire politiche ulteriori associabili a tali operazioni, quali ad esempio: il contenimento dei prezzi dei servizi, l’accelerazione della realizzazione dell’opera, il mantenimento dello standard delle prestazioni in fase gestionale, la riduzione dei prezzi delle abitazioni civili, il calmieramento dei fitti, l’abbattimento dei rischi in fase di start up di una operazione, la mitigazione parziale di alcuni rischi ben circostanziati, la ricerca di un minor impatto sul debito pubblico, etc. . Quanto più si diffonde la sperimentazione della finanza di progetto tanto più diventa “intelligente” e molteplice il ruolo che può assumere il contributo pubblico. La funzione esclusiva a fondo perduto appare oramai riduttiva e tipica della cultura degli esordi; in quella fase, solo il mercato dei costruttori azzardava la presentazione delle proposte, che, tuttavia, per vocazione assimilava ad un anticipo sul prezzo, istituto, peraltro, eliminato dall’appalto tradizionale per gli effetti deprimenti sulla finanza pubblica.
Al tempo della Merloni-ter il contributo pubblico in un’operazione di project financing ex art. 37-bis e ss. l. 109/94, finalizzata alla stipulazione di un contratto di concessione di lavori pubblici, regolato dall’art.19, comma 2, aveva alcune particolarità.
Per quello che interessa in questa sede, il predetto comma prevedeva la corresponsione al concessionario di un contributo pubblico, “che comunque non p(oteva) superare il 50 per cento dell’importo totale dei lavori”. Al comma 2-bis dello stesso articolo, l’incipit indicava che “la durata della concessione non p(oteva) essere superiore ai trenta anni”.
Il limite di durata rispondeva all’esigenza di non svuotare la prospettiva di riappropriazione pubblica dell’opera con un periodo indeterminato o eccessivamente lungo di gestione privata e di evitare una remunerazione sproporzionata del concessionario nella fase di gestione in situazione di monopolio. Il limite del 50% di contribuzione pubblica del valore dei lavori, invece, era dettato dalla volontà di limitare l’impatto sulla fiscalità generale nella realizzazione delle opere pubbliche per tutte le amministrazioni aggiudicatrici.
Il prezzo, inteso come contributo pubblico, erogato dall’amministrazione al concessionario si aggiungeva alla controprestazione, che consisteva unicamente nel diritto di gestire funzionalmente e di sfruttare economicamente i lavori realizzati. Il prezzo versato al concessionario doveva essere giustificato,
ex art.19, comma 2 della Merloni-
ter, dalla presenza dei c.d. “prezzi amministrati”, e cioè in tutti quei casi in cui l’amministrazione sosteneva, parzialmente, il costo della gestione della concessione, affinche' il prezzo delle prestazioni diminuisse per l’utente ad un livello predeterminato dall’amministrazione per il perseguimento di proprie politiche sociali
[14].
L’art.19, comma 2 con riguardo al prezzo-contributo pubblico è stato profondamente riformato dalla legge 166/02, dando origine alla c.d. Merloni-
quater[15], infatti, è stato eliminato il limite massimo di erogazione del prezzo
[16] ed, inoltre, la concedibilità del prezzo-contributo è stata sganciata dall’imposizione al concessionario di praticare delle tariffe o prezzi amministrati, controllati o predeterminati
[17].
Il prezzo o contributo pubblico, nella sua definizione ex art. 19, comma 2 della nuova Merloni-quater, si eroga agli affidatari del contratto di concessione di costruzione e gestione per “il perseguimento dell’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione in relazione alla qualità del servizio da prestare”; dunque, mentre sono stati eliminati alcuni limiti o condizioni di erogazione del contributo, tuttavia non è stato liberalizzato “a discrezione”. Infatti, si è passati da limiti semplicemente quantitativi per politiche di contenimento della spesa pubblica a limiti che incentivano comportamenti efficienti nella PA rivolti ad elevare il benessere sociale.
I nuovi limiti sono due e tra loro collegati: 1) l’equilibrio economico finanziario da perseguire; 2) la qualità del servizio da prestare mediante l’opera pubblica o di pubblico interesse. Considerandoli singolarmente sono due limiti “neutrali”, il Piano Economico Finanziario (PEF) deve entrare in equilibrio con la leva del contributo pubblico e l’equilibrio del PEF deve relazionarsi o meglio deve pesare i costi della qualità dei servizi da far erogare; averli posti in relazione, però, determina un effetto ulteriore significativo anche se non immediatamente evidente.
L’atto di corrispondere il contributo pubblico sembra sia gravato da un onere modale invertito nei confronti dello stesso concedente, in particolare la PA ogniqualvolta eroga, e si noti che questa disposizione emerge solo quando è disciplinato il contributo pubblico, deve tendere ad elevare lo
standard qualitativo dei servizi. Ciò di cui stiamo parlando non è una dazione di scopo
[18] perche' la norma lascia chiaramente intendere l’alternatività della destinazione finale del prezzo che può finanziare indifferentemente costi di investimento o gestionali, sembra sia, invece, una norma indirizzata alla stessa PA che la impegna ad un comportamento definitorio spinto oltre alla normale diligenza. In altre parole poiche' la PA si priva di una risorsa economica in aggiunta al diritto di gestire e sfruttare economicamente l’opera, la stessa PA ha l’obbligo normativamente previsto di compiere uno sforzo addizionale per incrementare la qualità dei servizi ai cittadini-utenti. I cittadini (
tax payers) poiche' sono privati di una risorsa derivante dalla fiscalità dagli stessi alimentata, sono compensati da una maggiore attenzione che dovrebbe porre la PA nella definizione della qualità dei servizi, comunque soggetta a negoziazione con la parte privata.
La norma si sofferma in particolare ad ammettere a titolo di contributo pubblico la cessione “in proprietà o diritto di godimento (di) beni immobili nella propria disponibilità, o allo scopo espropriati, la cui utilizzazione sia strumentale o connessa all'opera da affidare in concessione, nonche' beni immobili che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico, già indicati nel programma di cui all'articolo 14, ad esclusione degli immobili ricompresi nel patrimonio da dismettere ai sensi del
decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, convertito, con modificazioni, dalla
legge 23 novembre 2001, n. 410.”.
La ratio della novella legislativa in merito alle caratteristiche del prezzo, incidente sullo stesso art. 19, comma 2 della Legge, disposta dall’art. 7, comma 1 della legge 166/2002, è stata quella di allargare la tipologia di contribuzione pubblica disponibile per la PA oltre a quella finanziaria.
Si osservi come la PA in genere abbia “in cassa” molto più patrimonio immobiliare che disponibilità finanziarie liquide da mettere a disposizione per le operazioni di finanza di progetto e, soprattutto, come sia sempre la stessa PA ad avere i poteri per accrescere il valore degli immobili e quindi del contributo pubblico conferibile, potendo associare agli stessi diritti di costruzione o destinazioni d’uso economicamente pregiate
[20].
E’ opportuno procedere ad un'analisi attenta del tipo di beni conferibili in luogo del contributo in danaro perche' in relazione a ciascuno di essi sono previste cautele e particolari prescrizioni di cedibilità, a questo riguardo sono distinguibili nella norma:
a) i beni che possono essere dati in veste di contributo pubblico senza che ci siano particolari condizioni per la loro cessione che non sia quella generale di consentire l’equilibrio economico-finanziario degli investimenti e della connessa gestione. Appartengono a questa tipologia sia: a) i beni immobili del patrimonio disponibile dell’ente concedente; b) i beni immobili intesi come porzioni dell’opera da costruire da parte del concessionario.
b) i beni che devono essere oggetto di espropriazione a condizione, però, che sussista una loro connessione o strumentalità con l’opera principale da affidare in concessione, e questo proprio in ragione del sacrificio richiesto al privato ablato. Deve, pertanto, accedersi ad una stringente interpretazione del requisito di strumentalità e/o di connessione se si vuole evitare che la PA proceda ad espropriazioni esclusivamente per “far cassa” in luoghi estranei a quello dov’è localizzata l’opera principale o ad espropriare beni, che pur essendo localizzati in prossimità dell’opera, non siano utili alla gestione della stessa, e ciò per evitare possibili abusi.
A questo riguardo è utile precisare che la stringente interpretazione dei requisiti alternativi (la lettera della legge, infatti, contiene un o disgiuntivo) di connessione e di strumentalità, mentre giustifica i procedimenti ablatori non ha ragione d’essere per i beni già appartenenti al patrimonio disponibile della PA; per essi sembra sia sufficiente un’ interpretazione più comprensiva, legata solo alla fattibilità economico-finanziaria dell’opera da realizzare in concessione. Le prove empiriche della necessità di una minore stringenza interpretativa
[21] sono date dal fatto che, nel caso di beni già appartenenti al patrimonio disponibile, la PA : 1) può ben procedere ad una loro alienazione, convertendo il
quantum ricevuto in contribuzione pubblica all’interno del contratto di concessione, senza alcun obbligo di giustificare con stringenti criteri la connessione o la strumentalità con l’opera principale; 2) ha sempre la possibilità di indebitarsi per far fronte al contributo pubblico, ma compiendo un’attività completamente inefficiente se paragonata alla semplice cessione del bene disponibile; 3) secondo quanto detto al prossimo paragrafo può cedere i beni divenuti disponibili che devono essere indicati nel programma triennale senza la necessità di giustificazioni.
c) i beni che non assolvono più a funzioni di interesse pubblico a condizione che siano stati indicati nel programma triennale di cui all’articolo 14 della legge 109/94. Questi beni si differenziano da quelli appartenenti al patrimonio disponibile originario dell’ente concedente, perche' devono essere connotati da una transizione, in altre parole devono essere appartenuti o al demanio o al patrimonio indisponibile della PA e poi essersi trasformati in patrimonio disponibile con idoneo provvedimento accertativo. In questo modo attraverso la necessaria elencazione nel programma triennale delle opere pubbliche si vuole dare pubblicità all’acquisita natura di patrimonio disponibile.
Devono, in ogni caso, essere esclusi dalla possibilità di poter formare oggetto di contribuzione pubblica tutti quei beni che, indipendentemente dalle loro caratteristiche, sono ricompresi negli elenchi dei beni da dismettere ai sensi del DL 351/2001 per operazioni di cartolarizzazione e valorizzazione immobiliare.
Giova ricordare che la cessione dei diritti reali all’interno dell’affidamento di un contratto di concessione non permetterà di ottenerne la massima valorizzazione, se non altro per il ristretto mercato dei potenziali concessionari contendenti, i quali hanno dei requisiti di qualificazione piuttosto gravosi. A questo riguardo la PA avrà sempre cura di indicare, comunque, un valore di cessione del diritto almeno pari a quello di mercato, altrimenti sarebbe passibile di responsabilità per danno erariale e di annullabilità della cessione. Tuttavia, le ragioni per utilizzare questo strumento di finanziamento all’interno dei procedimenti per affidare le concessioni possono essere sicuramente meritevoli: il tempo, la necessità di tenere uniti due procedimenti e l’appeal procurato alla complessiva operazione in finanza di progetto. Infatti, un’attenta riflessione rivela che il “motore” economico che attrae gli investimenti privati in queste iniziative da realizzare mediante i contratti di concessione di costruzione e gestione non è più, esclusivamente, il reddito ricavabile dalla gestione dell’opera pubblica. In particolare, accanto alla tradizionale redditività da gestione se ne affianca un’altra, quella della valorizzazione del contributo pubblico ceduto sotto forma di diritti immobiliari. La differenza economica tra il valore dell’immobile con i relativi diritti edificatori e/o il cambiamento di destinazione d’uso, così come quantificato dalla PA in sede di determinazione del contributo pubblico, e il valore delle cubature edilizie costruite o ristrutturate in proprio dal concessionario, diventa il nuovo motivo d’interesse economico per gli investitori che contribuisce a rendere “calde” le iniziative in project financing.
Il contributo pubblico conferito in erogazione finanziaria o in cessione di diritti può essere corrisposto sia in conto investimento sia in conto gestione o contemplare destinazioni miste; l’imputazione dovrebbe essere una scelta della PA in relazione agli obiettivi che vuole perseguire e alle caratteristiche del progetto di investimento, l’importante è che la qualificazione sia consapevole, anche delle rilevanti conseguenze, e sia esplicitata nell’avviso di sollecitazione alla presentazione delle proposte ex art. 37-bis o nel bando ex art. 20, comma 2 della l. 109/94.
L’imputazione del prezzo/contributo pubblico in conto investimento o in conto gestione è di facile rappresentazione nelle opere calde, quelle generatrici di flussi reddituali come un parcheggio pubblico a rotazione, che valgono a ripagare gli investimenti, i costi operativi e la remunerazione degli investitori. Infatti, in caso di destinazione del prezzo in conto investimenti, la corresponsione potrà avvenire in un’unica soluzione o a SAL, dalla sottoscrizione del contratto a prima del collaudo dell’opera. L’isolamento di questa fase temporale è rilevante perche' l’art. 37-quinques, comma 1-ter della l. 109/94, riconosce al concessionario la possibilità, sempre che sia accordata dalla PA, di ricevere il prezzo anche in corso di esecuzione dei lavori, tuttavia, a tale circostanza sono state imposte alcune condizioni prudenziali.
La prima condizione riguarda la necessità per il concessionario, sia esso singolo o presente in ATI, di costituire una società di progetto, realizzando quello che gli economisti chiamano il
ring fence. In altre parole nei procedimenti in cui si realizzano opere in finanza di progetto, la costituzione di una società di progetto realizza di per se' una garanzia per la riuscita del procedimento
[22], fatto che autorizza, pertanto, l’anticipazione del prezzo in corso di esecuzione dei lavori. La previsione dell’anticipo del contributo pubblico è associata esclusivamente all’art. 37-
quinques, comma 1-
ter della l. 109/94, che tratta, appunto, della società di progetto, perciò se ne deve dedurre che non può essere corrisposto in caso di mancata costituzione della società.
La seconda condizione riguarda il fatto che il rimborso del contributo pubblico, erogato in corso d’opera, è garantito ex lege dalla responsabilità solidale dei soci della società di progetto, fino a quando non sia emesso il certificato di collaudo delle opere. Per attenuare l’invasività di quest’ultima garanzia ai soci è permesso di sostituire la propria garanzia solidale per la restituzione del prezzo erogato in corso d’opera, con garanzie bancarie ed assicurative possibilmente c.d. “a prima richiesta”.
A seguito del collaudo, cessato il rischio di “perdere” il contributo pubblico senza che siano eseguiti i lavori, la PA potrà erogare il prezzo in conto investimento senza particolari condizioni anche in più rate costanti o variabili per raggiungere altre finalità.
Il contributo pubblico durante la fase operativa potrà essere, invece, imputato in conto gestione per sostenere i flussi di cassa troppo deboli per sostenere l’equilibrio del PEF.
Non diversamente avviene nelle opere fredde (uffici pubblici, carceri, scuole, ospedali, trasformazioni urbane, etc.) rappresentate normativamente dall’art. 19, comma 2-
ter della l. 109/94, laddove “
Le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare in concessione opere destinate alla utilizzazione diretta della pubblica amministrazione, in quanto funzionali alla gestione di servizi pubblici, a condizione che resti al concessionario l’alea economico-finanziaria della gestione dell’opera.”. Il contributo pubblico, sia esso finanziario o in diritti ceduti, destinato in conto investimento parimenti può essere corrisposto in fase di costruzione senza discostarsi, quanto a tempi e a condizioni di erogazione, da quanto detto per le opere calde, mentre una certa confusione può generarsi qualora venga corrisposto durante la fase operativa. La ragione della possibile confusione risiede nel fatto che le opere fredde sono pagate al concessionario mediante un canone periodico, perciò di primo acchito è difficile distinguere la parte del canone da attribuire al contributo in conto investimento da quella concernente il pagamento dei servizi gestionali
[23].
Questa difficoltà è solo apparente perche' la PA avrà cura di distinguere contabilmente in caso di licitazione privata ex art. 20, comma 2 della Legge o imporre la distinzione nel caso in cui le proposte pervengano dal mercato nel procedimento ex artt. 37-bis e ss. della l. 109/94, ciò, come vedremo, anche per gli importanti vantaggi economici per l’ente procedente derivanti dall’applicazione dell’IVA appropriata.
A questo riguardo è opportuno prendere le mosse dalla risoluzione dell’Agenzia delle Entrate (Agenzia) n. 21 del 16 febbraio 2005, che ribadisce una posizione consolidata nel tempo con le risoluzioni n. 161/2000 e n. 395/2002. L’Agenzia sostiene come il contributo pubblico della PA, erogato mediante il trasferimento monetario o dalla cessione di diritti, si inserisca in un rapporto obbligatorio a prestazioni corrispettive, e, dunque, rappresenti il prezzo di un bene o di un servizio ricevuto rientrante in campo IVA
[24]. L’effetto immediato di questa interpretazione è quello di decurtare il contributo pubblico a disposizione dell’ente procedente da immettere nell’operazione in finanza di progetto a esclusivo vantaggio della fiscalità generale
[25]. Non deve sfuggire come l’aliquota IVA, da applicare al contributo pubblico a carico della PA, non sia sempre di una medesima percentuale. Infatti, ai sensi degli artt. 127
-quinques,
sexies e
septies della Tabella A, Parte III, allegata al DPR 633/1972, la gran parte delle opere pubbliche, ricadenti nell’ampia elencazione delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria
ex art. 4 della legge 847/1964, e quelle relative alle linee di trasporto metropolitane tranviarie ed altre a impianto fisso, etc., sono assoggettate all’IVA agevolata del 10%.
La prima considerazione utile, che va oltre le prospettazioni della risoluzione, è che l’appropriata imputazione del contributo pubblico in conto investimento, sia esso finanziario o mediante la cessione di diritti, permette, secondo le necessità della PA procedente, o un notevole risparmio di risorse da destinare ad altri usi o un maggiore volume di risorse da destinare alla realizzabilità dell’operazione in finanza di progetto. Questa considerazione vale sia quando il contributo in conto investimento è erogato in corso di costruzione dell’opera sia quando, ed è questa la novità applicativa, erogato in fase gestionale; a questo ultimo riguardo nella realizzazione delle opere fredde il canone periodico da corrispondere sarà “biforcuto”, una parte di esso sarà riferibile al contributo pubblico in conto investimento e godrà della decapitazione IVA agevolata del 10%, mentre la parte di canone (non contributo pubblico) riferibile al pagamento dei servizi verrà sottoposta al pagamento dell’IVA ordinaria.
Non deve sfuggire come ci sia un effetto virtuoso nel perseguire la predetta ottimizzazione IVA con particolare riguardo alle opere fredde dove la PA paga un canone periodico. Infatti, ciò dovrebbe indurre la PA , già nell’avviso o nel bando, ad obbligare il mercato a rappresentare l’offerta in termini di riduzione del canone richiesto, differenziandolo nelle componenti di prezzo dell’investimento e di prezzo dei singoli servizi offerti. In questo modo, oltre ad avere la visione immediata dell’IVA applicabile, si rende particolarmente trasparente la gara sia a beneficio dell’Amministrazione che conosce esattamente il costo unitario di ciò che acquista e sia per tutti i competitori che sono coscienti del margine di miglioramento proponibile correlato a ciascun servizio o investimento.
Il contributo pubblico, sia esso finanziario o in diritti ceduti e doverosamente valorizzati, dovrebbe permettere di portare in equilibrio il PEF del contratto di concessione aggiudicato. L’equilibrio del PEF garantisce che si stà sottoscrivendo un contratto conveniente ed equo per la PA.
Il contratto di concessione è un contratto a prestazioni sinallagmatiche in cui le parti si scambiano valori corrispondenti; il concessionario costruisce e gestisce il bene pubblico sfruttandolo economicamente ed il concedente si priva del diritto di farlo. Il contributo pubblico permette di riequilibrare i valori di scambio qualora siano, appunto, non allineati. Il compito della negoziazione è quella di bilanciare i valori scambiati nel contratto di concessione, ex ante la sua sottoscrizione, anche attraverso una congrua contribuzione pubblica.
Il contratto di concessione, però, si differenzia dal contratto di compravendita perche' l’esigenza di equilibrio dei valori di scambio non si esaurisce nell’istante della stipula ma deve permanere per tutta la durata concessoria. Il dilemma epistemologico da cui prendere le mosse è che non vi è certezza della dinamica nel tempo di alcune variabili che sono alla base dei valori di scambio
[26]. In ogni caso, il contratto di concessione non è un contratto aleatorio
[27], continua ad essere un contratto commutativo, ogni operazione negoziale contiene dei margini aleatori, anche la compravendita non è esente. La negoziazione dei contenuti di una concessione attraverso l’identificazione di tutti i rischi futuri, la loro rappresentazione dinamica, la loro allocazione alla parte che sappia meglio gestirli, la loro pesatura in termini di costi finanziari e, infine, l’opportuna mitigazione consentono, se il processo è condotto con competenza, di trasformare un contratto potenzialmente aleatorio in un contratto commutativo con un naturale tasso di aleatorietà.
Il privato deve giustamente trarre il profitto commisurato ai rischi effettivamente sostenuti ma nel caso dovesse venir meno la relazione tra rischio previsto
ex ante e la sua equa remunerazione, allora i valori in eccesso dovrebbero essere retrocessi alla PA o ai contribuenti/utenti sotto una forma di equivalente vantaggio come ad esempio lo sconto sulle tariffe. La retrocessione dei valori esuberanti si attua mediante strumenti contenuti in clausole contrattuali che si sostanziano in formule matematiche variamente costruite per raggiungere gli obiettivi prefigurati
[28].
Una ragione della necessità di riportare ad equità non solo strettamente negoziale ma sociale i contratti concessori si rinviene nella disciplina del danno erariale. Se è assodato che la PA causa un danno erariale quando in una compravendita svende un bene proprio, ad esempio fissando la base d’asta al disotto del valore effettivo di mercato, la stessa evidenza dovrebbe percepirsi nei contratti di concessione quando siano aggiudicati senza avere approntato le clausole che riportino ad equità nel corso del tempo i valori commutativi del contratto. In quella circostanza il concessionario si arricchisce senza alcuna causa o giustificazione collegata ai rischi effettivamente sostenuti, mentre la PA si depaupera dei valori generati da una posizione monopolistica pubblica. In altre parole la PA rinuncia ad appropriarsi di quei valori quando rinuncia ad esercitare la prerogativa di regolamentare unilateralmente gli extra-valori generati dalla posizione monopolistica.
L’effettività delle clausole che riportano ad equità i contratti di concessione o di partenariato dipendono dal fatto se la PA sia in condizione di verificare e/o di monitorare analiticamente l’andamento dei flussi di cassa in entrata ed in uscita del concessionario, in altre parole se venga risolto il problema di
moral hazard. In particolare la PA deve immunizzare l’opportunismo
post-contrattuale di azzardo morale con informazione nascosta del concessionario, dove l’asimmetria informativa riguarda una variabile che egli è in grado di osservare a differenza del concedente
[29]. Sembra che ogniqualvolta ci sia il versamento di un contributo pubblico, ma si può dire anche quando la PA paghi una concessione solo privandosi del valore di sfruttare economicamente il monopolio, sorga in capo alla PA il potere/dovere di un controllo “invasivo” nella contabilità del concessionario. La Corte Costituzionale nella Sentenza 3 novembre 1988, n. 1007, con riferimento al giudizio di conto ha stabilito che:
a) è principio generale del nostro ordinamento che il pubblico denaro proveniente dai cittadini contribuenti, destinato a soddisfare le pubbliche necessità, debba essere assoggettato alla garanzia costituzionale della correttezza della sua gestione;
b) che tale garanzia si attua con lo strumento del conto giudiziale;
c) che il carattere necessario del giudizio di conto postula alcuni significati: 1) che a nessun ente gestore di mezzi di provenienza pubblica e a nessun agente contabile, che abbia maneggio di denaro e valori pubblici, è consentito sottrarsi a questo fondamentale dovere; 2) che non possono porsi condizioni che rendano eventuale o aleatorio tale giudizio.
Non si vuole entrare nell’analisi di assoggettabilità dei concessionari al giudizio di conto quanto, piuttosto, evidenziare come dei principi costituzionali, -destinati a soggetti che maneggiano denaro pubblico per soddisfare pubbliche necessità, chiamasi contributo pubblico, tariffe riscosse o il valore della concessione in se e per se -, siano un sostegno quantomai efficace al potere/dovere negoziale della PA di inserire nei contratti di concessione pregnanti clausole di controllo di gestione per rendere effettiva l’equità nel tempo.